Sono i tratti della psicopatia che rendono vincente un leader politico?

 

 

GIOVANNA REZZONI & GIOVANNI ROSSI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIV – 12 novembre 2016.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: DISCUSSIONE]

 

Le elezioni presidenziali americane hanno decretato la vittoria di Donald Trump su Hillary Clinton e il neopresidente ha già incontrato Barack Obama per il passaggio di consegne; cosa hanno in comune persone tanto diverse politicamente da aver scatenato una protesta con imponenti manifestazioni in 25 grandi città degli Stati Uniti per la sconfitta della candidata democratica e prima potenziale donna alla guida della nazione politicamente più influente al mondo?

Secondo alcuni psicologi hanno in comune i tratti della psicopatia, un disturbo non più contemplato nel DSM (DSM-5) ma da tempo tornato in auge in alcune scuole di psichiatria, per la sua rispondenza a realtà cliniche frequentemente rilevate[1].

Kevin Dutton, considerando psicopatico Adolf Hitler ed altri dittatori in passato accostati alla paranoia, indica tre tratti sintomatici della  psicopatia, ossia assenza di paura, capacità di influenza sociale e immunità allo stress, quali caratteristiche che rendono vincente un leader politico. Dutton, psicologo dell’Università di Oxford autore del volume The Wisdom of Psychopaths (2012), negli scorsi giorni sembrava cercare popolarità intervenendo nel dibattito politico sulle elezioni presidenziali americane con le sue tesi. Il “gioco” di considerare più o meno psicopatici i leaders politici americani è stato avviato da altri suoi colleghi, che hanno chiesto a biografi e studiosi di politica di compilare dei test per la valutazione del disturbo psicopatico nei presidenti degli USA del passato. In uno studio ancora in corso, lo stesso Dutton ha chiesto ai biografi di compilare per conto dei protagonisti una versione abbreviata del notissimo strumento psicometrico Psychopathic Personality Inventory – Revised (PPI-R) ridotta a 56 domande, che si ritiene possano consentire di definire qualità e quantità del profilo psicopatico di una persona.

Dutton ha riportato i punteggi in un suo articolo nel quale ha stilato una classifica di “quanto erano psicopatici” i presidenti e, in tal modo, si è assicurato la citazione da parte di tutti gli organi di stampa americani[2].

Cosa c’è che non va in questo? Nulla, se fosse un semplice gioco di salotto, ma qui si tratta dell’annosa questione del fraintendimento dei principi e della pratica della diagnosi in psichiatria.

Prima di discutere questo punto, e rimarcando che siamo fra coloro che riconoscono dignità nosografica alla diagnosi di disturbo psicopatico distinta da quella di sociopatia, vogliamo ricordare che nella psichiatria americana da quasi mezzo secolo la categoria diagnostica della psicopatia, affiancata a nevrosi e psicosi, è stata abbandonata in quanto tale, come si può costatare rileggendo il manuale di Kolb nell’edizione dell’inizio degli anni Settanta. Nel capitolo “La Personalità Asociale” si legge: “Originariamente la maggior parte dei pazienti ora conosciuti come personalità asociali riceveva l’appellativo di «personalità psicopatica» o di «stato psicopatico costituzionale». Il termine oggi in uso consente un’applicazione più ristretta ed è riferito a quegli individui cronicamente asociali che non sono in grado di sviluppare dei comportamenti affettivi e di fiducia verso gli altri, verso i gruppi, e verso le regole del vivere sociale. Cioè essi sono insensibili alle gioie improvvise, appaiono privi del senso di responsabilità e non cercano di modificare il loro comportamento, nonostante le ripetute umiliazioni e punizioni. Essi sono privi di buon senso, e frequentemente sono capaci di razionalizzazioni verbali che spesso li convincono che le loro azioni sono ragionevoli e legittime”[3].

Più avanti troviamo la descrizione di un sottogruppo più vicino alla diagnosi di psicopatia ancora presente nei grandi trattati europei, ma così approssimativamente tracciata: “Viene ora fornita una descrizione di un gruppo di individui caratterizzato principalmente da imbroglioni e bugiardi. […]. In questo gruppo sono comprese le persone egocentriche il cui adattamento sociale consiste in una condotta menzognera, spesso priva di scopo, per lo meno apparentemente, frequentemente associata alla tendenza all’imbroglio. Esse sono fornite di una vivida immaginazione, combinata ad una instabilità dei propositi. Sono persone di buon temperamento, dai modi affabili, ottimiste, dalla fertile genialità e dai facili contatti sociali. Una certa vivacità del linguaggio unita ad una non consueta scorrevolezza discorsiva, una confidenzialità dei modi, una dignità il più delle volte conservata ed un superficiale aspetto culturale fanno sì che gli increduli difficilmente si convincono dell’aspetto patologico delle loro condizioni. Essi acquisiscono nozioni di arte, di letteratura o di linguaggio tecnico che impiegano per ottenere il proprio tornaconto e per sopraffare ed umiliare le proprie vittime. Essi raccontano straordinari aneddoti riguardanti le esperienze passate e dipingono il loro futuro con una certa noncuranza della realtà”[4].

A parte la forma e le imperfezioni linguistiche che sono da imputare ai traduttori del manuale di clinica psichiatrica più adoperato nelle due Americhe a quell’epoca, si riconosce in buona parte, forse con la sola eccezione del mancato riferimento alla insensibilità emotiva e alla resistenza allo stress, il profilo dello psicopatico della nosografia europea ma, già in quel testo, la categoria era stata inclusa nella personalità asociale. Tale precisazione ci è sembrata doverosa, perché in molte discussioni dei principali fautori di un ripristino della categoria diagnostica sembra che l’abolizione della diagnosi di psicopatia negli USA sia un fatto recente.

L’articolo di Kevin Dutton solleva in realtà questioni che vanno molto oltre il gioco di confrontare nella scala della psicopatia i 169 punti di Adolph Hitler ai 171 di Donald Trump e ai 152 di Hillary Clinton, o dell’orrore di attribuire punti nella scala della psicopatia a Gesù Cristo che non era un capo di stato, per il puro gusto della blasfemìa, perché questa deriva tradisce i concetti più elementari e fondamentali della diagnostica.

Diagnosticare vuol dire adoperare metodi e strumenti per passare attraverso manifestazioni cliniche soggettive (sintomi) ed oggettive (segni) per conoscere il processo patologico che le ha causate. Le diagnosi in psichiatria, e più in generale in medicina, si basano su una costellazione di segni e sintomi che hanno valore e significato nel loro insieme e non isolatamente e, perciò, non possono essere separati come se ciascuno fosse un tratto specifico di una fisionomia o, peggio, come se ciascuno contenesse tutta l’informazione dell’insieme, quasi fosse il frammento di una lastra olografica[5].

Se due giovani donne presentano l’interruzione delle mestruazioni e fra loro due gradi diversi di ritenzione idrosalina, aumento di peso ed espansione dell’addome, in assenza del tipico profilo ormonale che rende positivo il test di gravidanza, nessuno si sognerebbe di dire che una delle due è un po’ più incinta dell’altra: non lo è nessuna delle due. Quei segni non vogliono dire gravidanza da soli, ed acquisiscono questo valore solo quando associati ad elementi decisivi come il tasso di HCG. Esempi di questo elementare concetto con la medicina interna se ne possono fare a iosa.

Febbre, leucocitosi, ipergammaglobulinemia ed astenia sono presenti nel colera come in un altro paio di migliaia di malattie infettive ed altri processi patologici, perciò nemmeno al più sprovveduto degli studenti di medicina, in assenza di diarrea con feci ad “acqua di riso” e dei test che provano la presenza del vibrione, verrebbe in mente di dire che un paziente con tali segni sia più o meno coleroso.

È evidente che l’equivoco principale è dato dal concetto di “scala” applicato a test diagnostici che dovrebbero rilevare la presenza di una costellazione di elementi da valutare separatamente, per sapere se originano dalla condizione funzionale ipotizzata, e soprattutto congiuntamente, per verificare se esprimono insieme uno stato cerebrale e psicopatologico corrispondente ai processi di una particolare categoria diagnostica. Per chiarire meglio quanto si vuole rilevare, è opportuno fare un cenno all’origine clinica di questo strumento di accertamento. Originariamente, fatte le diagnosi in neurologia, a partire dalla precisa definizione diagnostica di una malattia si adoperavano le “scale” per valutare il grado di progressione a fini di monitoraggio, programmazione terapeutica o trattamento riabilitativo. In seno alla neurologia, con Broca, Wernicke, Dejerine e gli altri padri nobili, nasceva la neuropsicologia clinica che, fra gli strumenti di esame, includeva delle scale per la valutazione delle funzioni integre e delle capacità residue nell’ambito delle abilità cognitive e comunicative. Su questo modello furono introdotte ed impiegate a scopo diagnostico in psicopatologia delle scale, ed un classico esempio è la scala di Hamilton per la depressione. Nel tempo, sviluppandosi sempre più la diagnostica dei disturbi mentali mediante items (quesiti e osservazioni) a punteggio, in seno alla psicologia clinica e lontano dalla formazione biologico-scientifica del medico, è accaduto che si sia sempre più trascurato il paradigma concettuale alla base della conoscenza diagnostica e mutuato dalla fisica, che distingue la rilevazione di qualcosa (assenza/presenza) dalla sua misura (dimensioni).

I sintomi e i segni sono manifestazioni che, come vuole la semeiotica classica, al contempo nascondono e svelano il processo patologico sottostante: i sintomi non sono la malattia[6], ma la sua conseguenza: processi patologici diversi hanno sintomi comuni; di più, alcune manifestazioni anche se non ordinarie possono anche appartenere tanto alla fisiologia quanto alla patologia, come la reazione di paura per una minaccia fisica attuale (fisiologica) ed uno stato identico in assenza di minacce o pericoli, attribuito ad ansia per cause da accertare (patologico).

I sintomi del disturbo psicopatico o psicopatia possono essere riportati alle basi biologiche che poco a poco si vanno scoprendo[7]. Verosimilmente l’iposviluppo, considerato patologico, di alcune aree cerebrali non consente agli psicopatici di evolvere ed esprimere le normali reazioni dell’organismo alla paura e allo stress, e ciò contribuisce a rendere queste persone meno vulnerabili emotivamente e meno condizionate da circostanze inducenti tensione o responsabili di vere e proprie esperienze traumatiche, rendendole così più stabili e perciò maggiormente efficaci nell’esercitare influenza relazionale e sociale.

Ma la capacità di impressionare, colpire o affascinare gli altri può avere diverse origini, certamente nella maggior parte dei casi ha ragioni differenti dai difetti morfo-funzionali cerebrali della psicopatia. Anche la resistenza alle varie forme di squilibrio neurofunzionale indotto da stress presenta notevoli differenze individuali fisiologiche.

Madre Teresa di Calcutta, ora venerata come santa dalla Chiesa Cattolica, aveva una grande capacità di influenza sociale per il suo carisma derivante dalla totale coerenza fra la sua vita di servizio e la sua fede. Pur essendo una persona di grandissima capacità empatica, sulla quale fondava il suo apostolato di assistenza, era molto esercitata ad affrontare la sventura sociale, la malattia e la morte, con tutte le paure, le ansie e la disperazione che ne derivano, e ciò aveva innalzato molto la sua soglia di risposta allo stress e all’evocazione di stati emozionali.

In conclusione, a nostro avviso, la distinzione fra il piacere di un più o meno discutibile gioco intellettuale e la responsabilità di una diagnosi medica che può incidere sulla vita di una persona e sulle sorti di un procedimento penale, dovrebbe essere più netta, chiara e definita sia in termini deontologici sia culturali.

 

Gli autori della nota ringraziano la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invitano alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanna Rezzoni & Giovanni Rossi

BM&L-12 novembre 2016

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale non-profit.

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Si rimanda per un’approfondita esposizione e discussione sull’argomento, all’articolo Basi cerebrali della psicopatia, un disturbo ignorato dal DSM, pubblicato sul nostro sito a puntate a partire dal 30 ottobre 2010 all’11 dicembre 2010, con cadenza settimanale [Note e Notizie 30-10-10 Basi cerebrali della psicopatia, un disturbo ignorato dal DSM (prima parte) fino a Note e Notizie 11-12-10 Basi cerebrali della psicopatia, un disturbo ignorato dal DSM (settima ed ultima parte)]. Tra gli psichiatri e gli psicologi clinici che sostengono la necessità di questa categoria diagnostica, Scott O. Lilienfeld e Hal Arkovitz sono tra i più noti, anche per la loro costante attenzione all’argomento: Lilienfeld S. O., et al. Current Direction in Psychological Science 24 (4): 298-303, August 2015; Lilienfeld S. O., et al. Journal of Personality and Social Psychology 103 (3): 489-505, 2012.

[2] Kevin Dutton, Would You Vote for a Psychopath? Scientific American Mind 27 (5): 50-55, September/October 2016.

[3]Kolb, Psichiatria Clinica, p. 809, Idelson, Napoli 1979, traduzione italiana di Lawrence C. Kolb, Modern Clinical Psychiatry, W. B. Saunders Company, Philadephia 1973.

[4] Kolb, op. cit., p. 813.

[5] Anche il caso del segno diacritico, come la presenza di un particolare tipo di cellula o di un particolare anticorpo che consente la diagnosi di certezza e concettualmente può assimilarsi ad una metonimia della malattia stessa, nella massima parte dei casi ha valore nel contesto di altre manifestazioni.

[6] Il comportamentismo psicologico in voga cento anni or sono ancora influenza varie scuole di psichiatria, portando ad errori metodologici. Il comportamentismo nasceva come accantonamento dei processi cerebrali allora sconosciuti (black box) alla base delle manifestazioni comportamentali, ma si è poi sviluppato come negazione della loro esistenza. L’identificazione comportamentista dei sintomi con la malattia può essere operativamente utile in alcuni ordini di fenomeni, ma è ormai una teoria anacronistica alla luce degli straordinari progressi compiuti negli ultimi decenni.

[7] Si veda in Note e Notizie 30-10-10 Basi cerebrali della psicopatia, un disturbo ignorato dal DSM (prima parte) fino a Note e Notizie 11-12-10 Basi cerebrali della psicopatia, un disturbo ignorato dal DSM (settima ed ultima parte).